Articolo pubblicato anche sul sito del Centro Studi Livatino
La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 9691 pubblicata in data 24 marzo 2022, ha accolto il ricorso di una madre contro il provvedimento che aveva stabilito la sua decadenza dalla responsabilità genitoriale e il collocamento del figlio minore in casa famiglia.
Alla base del provvedimento impugnato vi era l’attribuzione alla donna di comportamenti ritenuti “alienanti”: il padre aveva lamentato difficoltà a relazionarsi con il figlio e il consulente tecnico d’ufficio aveva attribuito la responsabilità del rifiuto del minore al comportamento della madre. Di conseguenza, il Tribunale per i Minorenni di Roma aveva pronunciato nei confronti della donna la decadenza dalla responsabilità genitoriale, disponendo il collocamento in casa famiglia del bambino e l’interruzione di ogni contatto del piccolo con la madre.
La donna, preoccupata per il pregiudizio che quel provvedimento avrebbe potuto recare alla salute e all’equilibrio psicofisico del figlio, aveva presentato ricorso alla Corte d’Appello di Roma al fine di far sospendere l’esecuzione del provvedimento. La Corte d’Appello, tuttavia, nonostante il parere favorevole alla sospensione espresso dalla competente Procura Generale, rigettava il ricorso confermando l’allontanamento del minore dalla madre.
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza in esame, ha cassato con rinvio il decreto della Corte d’Appello, prendendo posizione su alcune importanti questioni in materia di affidamento dei minori.
La Suprema Corte ha ribadito che i provvedimenti relativi alla responsabilità genitoriale non possono basarsi su teorie prive di fondamento scientifico, come è appunto la sindrome di alienazione parentale (PAS), su cui peraltro la Corte era già intervenuta più volte, da ultimo con la nota ordinanza n. 13217 pubblicata il 17 maggio 2021, con cui ‒ seguendo un ormai consolidato orientamento ‒ aveva chiarito che i giudici sono tenuti ad accertare la veridicità dei comportamenti pregiudizievoli per i minori e non possono limitarsi al mero richiamo della consulenza tecnica. In quell’occasione, la Corte – riferendosi proprio alla PAS ‒ aveva altresì affermato che deve escludersi “la possibilità, in ambito giudiziario, di adottare soluzioni prive del necessario conforto scientifico e potenzialmente produttive di danni ancor più gravi di quelli che intendono scongiurare”.
Si è iniziato a parlare di “sindrome di alienazione parentale” negli anni Ottanta, quando lo psichiatra americano Richard Gardner iniziò a teorizzarla come dinamica psicologica disfunzionale che si attiverebbe nei figli minori coinvolti nelle separazioni conflittuali dei genitori. Secondo la costruzione di Gardner, la motivazione del rifiuto dei figli verso uno dei genitori (c.d. alienato) sarebbe da attribuirsi alla condotta ostile e denigratoria dell’altro genitore (c.d. alienante).
Per tanti anni i giudici di merito hanno basato provvedimenti in materia di responsabilità genitoriale e di allontanamento dei figli sulla sindrome di alienazione parentale, sostenuta da numerosi consulenti tecnici di area psicologica, malgrado fosse priva di fondamento scientifico. Con il tempo sono emerse situazioni che hanno dimostrato la pericolosità ed inattendibilità di quella teoria scientificamente infondata.
I traumi, le sofferenze, le problematiche a livello di sviluppo psicofisico di tanti bambini allontanati da uno dei genitori (in genere la madre) sulla base della sindrome di alienazione parentale hanno imposto un’attenta riflessione.
Oltre alla Cassazione, ha manifestato contrarietà verso la PAS anche il Ministro della Sanità, che in un’interrogazione parlamentare del 2020 (n. 4-02405) ha osservato che “ad oggi non è riconosciuta come disturbo psicopatologico dalla grande maggioranza della comunità scientifica e legale internazionale […] Detta “sindrome” non risulta inserita in alcuna delle classificazioni in uso”.
Si è occupata della materia anche la recente riforma della giustizia, raccogliendo le richieste più volte avanzate dagli operatori del settore a tutela dei minori e delle donne (le maggiori vittime della PAS): l’art. 1, comma 23 lett. b) della Legge delega n. 206/2021 stabilisce infatti, fra i principi e criteri direttivi, che il consulente tecnico eventualmente nominato dal giudice nel procedimento debba attenersi “ai protocolli e alle metodologie riconosciuti dalla comunità scientifica senza effettuare valutazioni su caratteristiche e profili di personalità estranee agli stessi”.
Con l’ordinanza del 24 marzo 2022, a distanza di meno di un anno dall’ultima pronuncia sull’argomento, la Cassazione ha dunque ribadito con fermezza la necessità di bandire dalle aule di giustizia la PAS, ed ha osservato che “il richiamo alla sindrome d’alienazione parentale e ad ogni suo, più o meno evidente, anche inconsapevole, corollario, non può dirsi legittimo, costituendo il fondamento pseudoscientifico di provvedimenti gravemente incisivi sulla vita dei minori, in ordine alla decadenza dalla responsabilità genitoriale della madre”.
La Corte ha poi affrontato altre tematiche rilevanti in materia di rapporti genitoriali ed affidamento dei minori.
Sulla bigenitorialità ha ricordato che si tratta innanzitutto di un diritto dei minori e in quanto tale è inconcepibile pensare di poterlo tutelare efficacemente rimuovendo una delle figure genitoriali. Nel caso di specie, la Cassazione ha ritenuto errata la posizione della Corte d’Appello laddove ha inteso realizzare il diritto alla bigenitorialità escludendo dalla vita del bambino la presenza della madre, sulla base di motivazioni che in sostanza erano meri rinvii alla consulenza tecnica. Anche in questo caso ‒ ha ricordato la Corte richiamando i principi della Convenzione ONU su diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, nonché l’art. 8 della CEDU ‒ il criterio che deve orientare l’interprete è sempre quello del superiore interesse del minore, da valutarsi in concreto. Pertanto, “al fine della tutela del diritto alla bigenitorialità”, conclude sul punto la Corte, occorre provare se la condotta sia stata tale “da aver leso in modo grave il rapporto tra il figlio e l’altro genitore, sino al peggior risultato ipotizzabile, quello di renderlo difficilmente recuperabile o del tutto irrecuperabile”.
Inoltre, ha precisato ancora la Cassazione, ogni decisione assunta dai giudici con riferimento ai minori deve tener conto delle diverse situazioni concrete e delle conseguenze che potrebbe determinare nella vita dei destinatari. Sulla base di questa osservazione, la Suprema Corte ha criticato i giudici di merito per non aver considerato le ripercussioni che l’allontanamento avrebbe determinato sulla vita e sulla salute del bambino.
Altro interessante argomento preso in esame dall’ordinanza è quello che attiene all’ascolto del minore. La Cassazione ha infatti ritenuto nullo il provvedimento di merito in ragione dell’ingiustificato mancato ascolto del minore: “in tema di affidamento dei figli minori l’ascolto del minore infradodicenne capace di discernimento costituisce adempimento previsto a pena di nullità, atteso che è espressamente destinato a raccogliere le sue opinioni e valutare i suoi bisogni”. L’ascolto del minore ‒ precisa la Corte ‒ “non può essere sostituito dalle risultanze di una consulenza tecnica d’ufficio, la quale adempie alla diversa esigenza di fornire al giudice altri strumenti di valutazione”.
Un ulteriore aspetto messo in luce dalla Cassazione attiene alle concrete modalità attuative dei provvedimenti giudiziari di allontanamento. Nei casi in cui il minore debba essere allontanato dai genitori per esser condotto in altro luogo, come ad esempio una casa famiglia, le autorità preposte devono sempre astenersi dall’impiegare la forza fisica. Simili misure autoritative, osserva la Corte, non sono conformi “ai principi dello Stato di diritto”, non sono compatibili con “la tutela della dignità della persona” e potrebbero altresì cagionare traumi ai minori. Anche nel rispetto dei principi della CEDU, ha aggiunto la Corte, le autorità dovrebbero semmai prendere in considerazione l’utilizzo delle sanzioni economiche ex art. 709 ter c.p.c., in caso di violazioni dolose o colpose delle prescrizioni impartite dal giudice.