L’uso di internet è sempre più diffuso fra gli adolescenti e, stando ai sondaggi più recenti, sono sempre più numerosi anche i bambini che utilizzano i social network per comunicare con i propri coetanei o che utilizzano la rete per attività ludiche.
Un incremento nell’utilizzo degli strumenti informatici vi è stato inoltre a seguito dell’emergenza sanitaria dovuta alla diffusione del Covid-19, che ha determinato l’introduzione diffusa della didattica a distanza. In tal modo, anche quei minori che ancora non facevano abitualmente uso di computer, tablet o smartphone si sono trovati nella condizione di dover ricorrere a detti strumenti per accedere alle diverse piattaforme.
È dunque plausibile immaginare che sempre più minori accederanno ad internet, con tutti i vantaggi ma anche con tutti i rischi che questo comporta.
Se da una parte, infatti, l’uso dei dispositivi digitali e la navigazione nella rete offrono numerose risorse in termini di facilitazione nella trasmissione delle conoscenze, dall’altra non vanno però dimenticate le insidie che si celano fra le pagine virtuali attraverso le quali si naviga, compresa la possibilità di incontrare fake news.
Tanto gli adulti quanto i minori corrono pertanto dei rischi durante la navigazione. Tuttavia, è evidente che i minori sono maggiormente esposti ai pericoli, in quanto oltre a violazioni della privacy in cui possono incorrere anche gli adulti, rischiano anche, ad esempio, di imbattersi in testi o immagini inadeguate alla loro età e ‒ nel caso specifico dell’uso dei social network ‒ di essere vittime di molestie, di cyberbullismo e di pornografia minorile.
Certamente è inngabile che internet sia uno strumento molto utile ‒ di cui sarebbe ormai difficile fare a meno ‒ ma è altrettanto vero che si tratta di uno strumento che richiede un uso responsabile e consapevole.
Ma cosa succede se un minore fa un cattivo uso dei social network e lede altre persone o diventa vittima di abusi?
A questi interrogativi ha di recente dato un’interessante risposta il Tribunale per i minorenni di Caltanissetta (Sent. dell’8 ottobre 2019), giudicando il caso riguardante un minore accusato di aver molestato, in concorso con altri coetanei e attraverso il sistema di messaggistica istantaneo Whatsapp, una minore. La vittima, a causa dei messaggi ricevuti, si era trovata «in un perdurante e grave stato di ansia e di paura», tanto da sentirsi costretta a «modificare le proprie abitudini di vita, per il fondato timore per l’incolumità propria e dei propri cari».
I genitori sono responsabili? E fino a che punto? Che tipo di intervento è richiesto ai genitori?
Il minore, ascoltato in udienza, manifestava pentimento per i messaggi inviati e per la sofferenza cagionata. Riferiva di non aver mai conosciuto il proprio padre e di essere stato cresciuto solo dalla madre, con la quale dichiarava di avere un buon rapporto e di essere da lei accudito. Nel corso della medesima udienza veniva dunque ascoltata anche la madre del ragazzo, la quale affermava di essere consapevole non soltanto della gravità degli atti commessi dal figlio, ma anche dell’importanza del dovere di educazione e vigilanza verso il minore.
Il Giudice di Caltanissetta, nel rilevare la sempre più frequente utilizzazione da parte dei minori sia di internet che degli strumenti di comunicazione telematica, ha osservato che «i pericoli per gli stessi minori derivanti dall’anomalo utilizzo dei suddetti mezzi pone la necessità di una adeguata formazione di questi ultimi all’utilizzo della rete telematica».
Compete dunque ai genitori, sempre secondo il Giudice siciliano, attivarsi per fornire ai figli tutte le informazioni necessarie. Ma non solo. Gli obblighi inerenti la responsabilità genitoriale comportano senz’altro il dovere di educare i figli all’uso dei mezzi di comunicazione, ma anche l’obbligo di vigilare e di verificare che il minore utilizzi correttamente detti mezzi, nel rispetto delle leggi, delle altrui libertà e dell’altrui dignità.
Come osservato nel provvedimento in esame, l’educazione impartita dai genitori è fondamentale in chiave preventiva, sia per evitare che i propri figli diventino vittime di molestie, sia per evitare che i propri figli cagionino danni a terzi con l’uso inappropriato dei mezzi di comunicazione telematica. I genitori, si legge nel provvedimento, «sono tenuti non solo ad impartire ai propri figli minori un’educazione consona alle proprie condizioni socio-economiche, ma anche ad adempiere a quell’attività di verifica e controllo sulla effettiva acquisizione di quei valori da parte del minore; riguardo all’uso della rete telematica, l’adempimento del dovere di vigilanza dei genitori è, inoltre, strettamente connesso all’estrema pericolosità di quel sistema e di quella potenziale esondazione incontrollabile dei contenuti».
Sulla pericolosità insita nell’uso dei social network era già intervenuta la giurisprudenza di merito, osservando che il dovere di vigilanza dei genitori deve essere inteso in un controllo sia qualitativo che quantitativo dell’accesso alla rete, al fine di evitare ‒ come suggerito ad esempio dal Tribunale di Teramo (cfr. 16 gennaio 2012) citato nel provvedimento in esame ‒ «che quel potente mezzo fortemente relazionale e divulgativo possa essere utilizzato in modo non adeguato da parte dei minori».
Il Tribunale per i minorenni di Caltanissetta, pertanto, considerata «l’anomala condotta posta in essere dal minore» e «avuto riguardo anche alla pericolosità del mezzo utilizzato» ha ritenuto opportuno coinvolgere i Servizi Sociali incaricandoli di svolgere un’attività di monitoraggio e supporto sia per il minore che per la madre, anche al fine di «verificare le capacità educative e di vigilanza della stessa».
Alla luce del provvedimento citato, dunque, è possibile affermare che l’obbligo di educazione imposto ad entrambi i genitori, di cui all’art. 147 c.c. e dell’art. 30 della Costituzione, vada considerato anche come “obbligo all’educazione digitale”, al fine di formare nel miglior modo possibile i figli e consentire loro la piena partecipazione sociale, nel rispetto dei principi fondamentali e dell’altrui dignità. Non si può infatti trascurare come i social media ed internet stiano acquisendo uno spazio sempre maggiore nella vita di relazione e, pertanto, è necessario che l’educazione dei figli consideri anche questi aspetti.
Va inoltre considerato che i genitori sono anche responsabili per culpa in educando dei danni cagionati a terzi dai figli. Come più volte è stato osservato in dottrina e in giurisprudenza, lo stesso vale anche per i danni prodotti da un uso scorretto dei social media: in tal senso la giurisprudenza ha riconosciuto, ad esempio, la responsabilità dei genitori di cyberbulli minorenni.
Si presenta però un altro interrogativo. Nell’attività di formazione digitale dei minori, quale ruolo attribuire alla scuola?
Non si può infatti trascurare che la scuola e la famiglia concorrono, insieme, ad educare ed istruire i minori.
Inoltre, va altresì considerato nel caso in cui l’evento dannoso si verifichi in orario e luogo scolastico, sussiste la responsabilità degli insegnanti (per culpa in vigilando) ai sensi dell’art. 2048 c.c., comma 2: «i precettori e coloro che insegnano un mestiere o un’arte sono responsabili del danno cagionato dal fatto illecito dei loro allievi e apprendisti nel tempo in cui sono sotto la loro vigilanza»).
Anche i dirigenti scolastici hanno precisi obblighi organizzativi di amministrazione e di controllo sull’attività degli operatori scolastici (ex artt. 2043 c.c. e 2051 c.c.) e in particolare rispondono per culpa in organizzando, ossia per non aver predisposto tutte le misure organizzative in grado di garantire la sicurezza dell’ambiente scolastico e la disciplina tra gli alunni. La culpa in organizzando, secondo la giurisprudenza più recente, può configurarsi anche nel caso in cui la scuola non abbia attuato misure di prevenzione del cyberbullismo.
È quindi necessario, fermo restando il ruolo educativo della famiglia e le responsabilità di cui si è detto, che anche la scuola, al contempo, si attivi nel formare ed istruire gli studenti di ogni ordine e grado sotto il profilo dell’uso corretto e responsabile dei social media, anche eventualmente attraverso la previsione di appositi incontri durante l’orario scolastico.
A tal proposito, è interessante ricordare una sentenza del Tar Campania di un paio di anni fa (vedi Tar Campania, sezione IV, sentenza n. 6508 dell’8 novembre 2018) che ha ritenuto legittimo il 7 in condotta messo dal Consiglio di classe ad una studentessa che aveva usato frasi offensive in una chat di WhatsApp fuori dall’orario scolastico. La ragione di tale legittimità si rinviene, secondo il giudice amministrativo, nel disposto dell’art. 7 del Dpr 509/2009, secondo cui, espressamente, la valutazione del comportamento degli alunni passa anche dal «rispetto dei diritti altrui e dalle regole che governano la convivenza civile in generale e la vita scolastica in particolare».