Con una recente decisione la Suprema Corte ha ribadito il proprio consolidato orientamento secondo cui il licenziamento per ritorsione, anche definito per rappresaglia, è assimilabile al licenziamento discriminatorio (Cass. sez. lav. 17 giugno 2020 n.11705).
NOZIONE DI LICENZIAMENTO RITORSIVO O PER RAPPRESAGLIA
Il licenziamento per motivo di ritorsione è un licenziamento che viene intimato dal datore di lavoro in conseguenza di una condotta allo stesso sgradita – benché legittima – posta in essere dal lavoratore: un licenziamento, dunque, che si potrebbe definire anche “vendicativo”. Il licenziamento ritorsivo, quindi, formalmente rivestirà la forma di una fattispecie di licenziamento prevista dall’ordinamento (per esempio, di un licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo oggettivo), ma, nella sostanza, le motivazioni apparenti andranno di volta in volta a mascherare le reali intenzioni che hanno portato all’estromissione del lavoratore. Ad esempio, il licenziamento ritorsivo può scaturire dalla volontà del datore di lavoro di liberarsi di un lavoratore che, per qualche motivo, è divenuto “scomodo”.
Generalmente, le ipotesi più frequenti di licenziamento per motivi ritorsivi si verificano in quei casi in cui il lavoratore decide di tutelare, nel corso del rapporto, la propria posizione lavorativa, creando, in tal modo, “malumore” nel datore di lavoro, come in tutte quelle ipotesi in cui il lavoratore decida di ricorrere all’autorità giudiziaria per ottenere l’esatto inquadramento contrattuale o il pagamento di differenze retributive o di retribuzioni arretrate, o il risarcimento del danno conseguente ad un infortunio sul lavoro. Il licenziamento per motivi ritorsivi si può verificare ancora nel caso in cui sorgano delle “differenze di vedute” tra il dipendente ed il datore di lavoro, o tra il dipendente ed alcuni colleghi “influenti” sulla compagine aziendale, ed il procedimento disciplinare non possa essere validamente iniziato.
Il CASO IN ESAME
Il ricorso veniva proposto da una società avverso la sentenza della Corte di Appello di Napoli che aveva confermato la decisione di primo grado, con la quale il Tribunale della medesima sede, pronunciando nel giudizio di opposizione, aveva dichiarato la nullità, in quanto ritorsivo, del licenziamento per giusta causa intimato ad un dirigente, con conseguente ordine di reintegrazione in servizio dello stesso e condanna della società al risarcimento del danno L. n. 300 del 1970, ex art. 18, come modificato dalla L. n. 92 del 2012.
I PRINCIPI AFFERMATI DALLA SUPREMA CORTE
Giova preliminarmente rammentare che la Suprema Corte nel configurare tale tipologia di licenziamento ha sancito che “il licenziamento per ritorsione diretta o indiretta– assimilabile a quello discriminatorio –, vietato della L. n. 604 del 1966, art. 4,L. n. 300 del 1970, art. 15 e della L. n. 108 del 1990, art. 3 – costituisce l’ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito o di altra persona ad esso legata e pertanto accomunata nella reazione, con conseguente nullità del licenziamento, quando il motivo ritorsivo sia stato l’unico determinante e sempre che il lavoratore ne abbia fornito prova, anche con presunzioni”(Cfr. Cass. n. 17087/2011).
In questa pronuncia la Corte di Cassazione ribadisce il proprio costante indirizzo secondo cui il licenziamento ritorsivo deve essere equiparato, data l’analogia di struttura, alla fattispecie di licenziamento discriminatorio, vietato dalla L. n. 604 del 1966, art. 4, L. n. 300 del 1970, art. 15 e della L. n. 108 del 1990, art. 3, interpretate in maniera estensiva, che ad esso riconnettono le conseguenze ripristinatorie e risarcitorie di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18.
In altre parole per potersi configurare la fattispecie del licenziamento per ritorsione debbono verificarsi due presupposti: a) l’accertamento del motivo di ritorsione come illecito (es. licenziamento per vendetta o per rappresaglia del datore di lavoro a causa di un comportamento legittimo da parte del lavoratore); b) l’esclusività del motivo che deve essere determinante, circostanza che comporta quindi l’assenza di altre ragioni lecite determinanti.
A ciò deve aggiungersi che “il divieto di licenziamento discriminatorio, sancito dall’art. 4 della Legge 604 del 1966, dall’art. 15 della Legge 300/1970 e dall’art. 3 della Legge 108/1990, è suscettibile – in base all’art. 3 della Costituzione e sulla scorta della giurisprudenza della Corte di Giustizia in materia di diritto anti discriminatorio e anti vessatorio, in particolare, nei rapporti di lavoro a partire dalla introduzione dell’art. 13 nel Trattato CE, da parte del Trattato di Amsterdam – di interpretazione estensiva, sicché l’area dei singoli motivi vietati comprende anche il licenziamento per ritorsione o rappresaglia, ossia dell’ingiusta e arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore quale unica ragione del provvedimento espulsivo, essendo necessario in tali casi, dimostrare anche per presunzioni, che il recesso sia stato motivato esclusivamente dall’intento ritorsivo” (Cass. Civ. Sez. Lav. Sent. N. 24648/2015; Trib. Civ. Di Roma Sez. Lav. Sent. N. 4517 del 24.06.2016).
Si evidenzia che nel licenziamento ritorsivo il giudice può accertare l’esistenza di un motivo illecito determinante anche facendo leva sulla prova per presunzioni ex art. 2729 c.c. che per essere ammesse come prova – giova ricordarlo – devono essere gravi, precise e concordanti.
LE SANZIONI PREVISTE
Riguardo alla sanzione prevista dal legislatore, si evidenzia che, ai sensi e per gli effetti dell’art. 2 del d.lgs. n 23/2015, nel caso di licenziamento per ritorsione è applicabile la tutela reintegratoria essendo quella prevista in caso di licenziamento discriminatorio estensibile anche al caso di licenziamento per ritorsione in quanto rientra tra le varie ipotesi di nullità del licenziamento. Oltre alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro che occupava, è prevista altresì la condanna del datore di lavoro al pagamento di una indennità commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegra, che non potrà essere comunque inferiore a cinque mensilità, dedotto quanto eventualmente percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative nel periodo di estromissione.