Il testo è stato pubblicato anche sul sito del Centro Studi Livatino
Nel nostro ordinamento non è più previsto come reato il mancato adempimento, da parte dei genitori, dell’obbligo di impartire ai figli l’istruzione media inferiore. È per questo motivo che la Terza Sezione penale della Cassazione, sentenza n. 23488 del 3 luglio 2020, ha annullato senza rinvio, perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, il provvedimento con cui una madre era stata condannata dal Giudice di Pace di Cosenza al pagamento dell’ammenda di euro 30,00 per la commissione del reato di cui all’art. 731 c.p.
Il caso in esame
Nel 2018 una madre è stata condannata dal Giudice di Pace di Cosenza, ai sensi dell’art. 731 c.p., per aver omesso, in qualità di genitore affidatario del minore, di far impartire al figlio l’istruzione media inferiore. Nel processo era infatti risultato che il ragazzo, nel corso dell’anno 2015, non aveva frequentato la scuola a cui era stato iscritto.
La donna ha presentato appello, eccependo unicamente che il fatto non poteva essere considerato reato in quanto il D.Lgs 212/2010 aveva abrogato l’art. 8 della legge n. 1859 del 1962 e di conseguenza aveva fatto venir meno il riferimento normativo che consentiva di estendere la previsione dell’art. 731 c.p. alla violazione dell’obbligo di far frequentare ai figli la scuola media inferiore.
La decisione della Cassazione
La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso presentato dalla madre del ragazzo, confermando che ‒ in seguito all’abrogazione dell’art. 8 della Legge n. 1859/1962 da parte del D. Lgs 212/2010, all. I, parte 52 ‒ attualmente risulta essere penalmente sanzionato soltanto l’inadempimento dell’obbligo di istruzione elementare, mentre non è più applicabile l’art. 731 c.p. nel caso di mancato assolvimento dell’obbligo dell’istruzione media secondaria.
Riflessioni
La decisione della Corte di Cassazione, indubbiamente condivisibile nell’iter logico giuridico e peraltro preceduta da altre sentenze conformi (cfr. Cass. Pen. 4520/2017; Cass. Pen. n. 4523/2017; Cass. Pen. n. 50624/2017), sollecita tuttavia una riflessione in ordine a quanto previsto dal Legislatore in materia che, da una parte, ha dapprima introdotto, con la Legge n. 296/2006 (cfr. art. 1, comma 622) e il Decreto Ministeriale n. 139/2007, norme in materia di adempimento dell’obbligo di istruzione per almeno 10 anni, e dall’altra ha poi escluso di fatto, con il D.Lgs n. 212/2010, la punibilità dei genitori per l’inadempimento dell’obbligo di istruzione media secondaria.
Attualmente il nostro ordinamento, nel rispetto di quanto previsto dall’art. 34 della Costituzione, prevede due cicli scolastici: il primo, della durata di otto anni, completamente obbligatorio e articolato in scuola primaria (i cinque anni della c.d. scuola elementare) e scuola secondaria di secondo grado (i tre anni della c.d. scuola media) e il secondo, della durata di cinque anni, in cui si può optare fra scuola secondaria di secondo grado o istruzione e formazione professionale, di cui solo i primi due anni rientrano nell’istruzione obbligatoria.
L’elevamento dell’obbligo di istruzione a dieci anni è stato introdotto per favorire non solo il pieno sviluppo della persona nella costruzione del sé, ma anche la socialità dei minori, attraverso il confronto con i coetanei e i docenti e quindi con una realtà ulteriore rispetto a quella familiare.
Detto elevamento è stato previsto dal Legislatore italiano anche in attuazione della Raccomandazione del Parlamento Europeo e del Consiglio del 18/12/2006 relativa alle competenze chiave per l’apprendimento. Nel documento tecnico allegato al D.M. 139/2007 si legge infatti: “l’Unione europea ha invitato gli Stati membri a sviluppare, nell’ambito delle loro politiche educative, strategie per assicurare che: l’istruzione e la formazione iniziali offrano a tutti i giovani gli strumenti per sviluppare le competenze chiave a un livello tale che li preparino alla vita adulta e costituiscano la base per ulteriori occasioni di apprendimento, come pure per la vita lavorativa; si tenga debitamente conto di quei giovani che, a causa di svantaggi educativi determinati da circostanze personali, sociali, culturali o economiche, hanno bisogno di un sostegno particolare per realizzare le loro potenzialità; gli adulti siano in grado di sviluppare e aggiornare le loro competenze chiave in tutto il corso della vita, con un’attenzione particolare per i gruppi di destinatari riconosciuti prioritari nel contesto nazionale, regionale e/o locale”.
Il diritto all’istruzione, in quanto mezzo indispensabile per l’esercizio degli altri diritti, svolge un’importante funzione sociale. È un diritto fondamentale appartenente a tutti e assume particolare rilievo per i minori, poiché, come affermato anche dalla Dichiarazione dei diritti del fanciullo del 1959 (cfr. principio settimo): “il fanciullo ha diritto a godere di un’educazione che contribuisca alla sua cultura generale e gli consenta, in una situazione di eguaglianza e di possibilità, di sviluppare le sue facoltà, il suo giudizio personale e il suo senso di responsabilità morale e sociale e di divenire un membro utile alla società”. La costituzione italiana riconosce il fondamentale diritto all’istruzione, stabilendo all’art. 34 che “l’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita”, conformemente a quanto affermato anche in ambito internazionale (cfr. Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1952, Convenzione sui Diritti dell’Infanzia del 1989, Costituzione dell’UNESCO del 1945, Patto Internazionale sui diritti Economici, Sociali e Culturali del 1966).
Il Report dell’Istat del 22 luglio 2020 sui livelli di istruzione e ritorni occupazionali, relativo all’anno 2019, presenta dei dati che confermano livelli medi di istruzione della popolazione italiana ancora piuttosto bassi, soprattutto se confrontati con quelli di altri Paesi europei. Si legge nel Report: «In Italia, la quota di popolazione con titolo di studio terziario continua a essere molto bassa: il 19,6% contro il 33,2% dell’Ue. Nel Mezzogiorno rimangono decisamente inferiori sia i livelli di istruzione (il 54% possiede almeno un diploma, 65,7% nel Nord) sia i tassi di occupazione anche delle persone più istruite (71,2% tra i laureati, 86,4% nel Nord)» inoltre, «La quota di popolazione tra i 25 e i 64 anni in possesso di almeno un titolo di studio secondario superiore è il principale indicatore del livello di istruzione di un Paese. Il diploma è considerato, infatti, il livello di formazione indispensabile per partecipare con potenziale di crescita individuale al mercato del lavoro. In Italia, nel 2019, tale quota è pari a 62,2% (+0,5 punti rispetto al 2018), un valore decisamente inferiore a quello medio europeo (78,7% nell’Ue28) e a quello di alcuni tra i più grandi paesi dell’Unione: 86,6% in Germania, 80,4% in Francia e 81,1% nel Regno Unito. Solo Spagna, Malta e Portogallo hanno valori inferiori all’Italia».
Come rilevato inoltre dall’Istat, è ancora molto alto in Italia il numero di minori che abbandonano precocemente il sistema di istruzione e formazione, quello che viene indicato come “fenomeno degli Early Leavers from Education and Training (ELET)”. L’abbandono precoce è un problema presente anche in altri Paesi europei, tuttavia in Italia si è rilevato che non soltanto vi è una maggiore incidenza di giovani che abbandonano precocemente gli studi, ma anche una quota di occupati, tra questi, significativamente inferiore (-11 punti) rispetto alla media europea. Come risulta dal Report dell’Istat sopra citato, «in Italia è occupato un giovane ELET su tre (35,4%), nella media Ue poco meno di uno su due (46,6%)»
Non basta dunque prevedere per legge l’obbligo scolastico per almeno dieci anni se non vengono altresì introdotti strumenti per rendere effettivo quello che prima ancora di essere un obbligo è un diritto fondamentale. È noto che le cause di abbandono precoce del sistema di istruzione e formazione sono prevalentemente di tipo economico e socio-culturale e riguardano quindi più le famiglie che le scuole. Nel nostro ordinamento, un ruolo di controllo è affidato ai dirigenti scolastici che sono chiamati a vigilare sull’osservanza dell’obbligo scolastico degli alunni, inviando gli elenchi degli iscritti ai Comuni e verificando la frequenza degli stessi nel corso dell’anno scolastico. Laddove riscontrino qualche violazione, gli stessi sono altresì tenuti a sporgere tempestivamente denuncia per iscritto, solo però – per le ragioni sopra illustrate – in caso di alunni della scuola primaria.
Come osservato dal MIUR nella Nota del 6/07/2018 (avente ad oggetto “tutela del diritto all’istruzione, attraverso l’adempimento dell’obbligo scolastico”), nel ricordare l’importanza del controllo da parte dei dirigenti scolastici al fine di tutelare il diritto all’istruzione dei minori attraverso il monitoraggio e la vigilanza in merito all’adempimento dell’obbligo: «la piena realizzazione del diritto alla libertà e all’uguaglianza dei cittadini e il completo sviluppo della persona umana sono possibili solo attraverso l’istruzione e la formazione, che assumono perciò un ruolo di fondamentale importanza nella società».
Purtroppo però vi sono ancora molti bambini che, terminata la scuola primaria, non tornano dietro i banchi di scuola, con il rischio di essere destinati all’emarginazione sociale. Le cause dell’abbandono precoce del percorso scolastico sono diverse, ma in genere si inseriscono sempre in contesti disagiati e di povertà. A volte sono i genitori a preferire che i figli non vadano a scuola per dedicarsi ad altre “attività” utili al sostentamento della famiglia, altre volte sono invece i figli che non vogliono frequentare le lezioni perché non riescono ad inserirsi nella comunità scolastica o comunque non ne sono attratti: in entrambi i casi, i genitori sono comunque responsabili, in quanto sono tenuti ‒ in virtù del loro ruolo educativo e di cura verso i figli ex art. 30 della costituzione ‒ a vigilare e controllare che i minori si rechino realmente a scuola per ricevere l’istruzione obbligatoria, come rilevato anche dalla giurisprudenza (cfr. Cass. pen. n. 33841/2007; Cass. pen. n. 32539/2006).
Non è facile trovare soluzioni a questo problema, certamente però non è di aiuto l’incoerenza normativa che è venuta a crearsi con l’abrogazione dell’art. 8 della legge n. 1859 del 1962.
L’obbligo di istruzione per dieci anni mal si concilia, infatti, con la previsione della sanzione penale per i genitori inadempienti, limitata però ai soli primi cinque anni di percorso di studi. Tra l’altro è interessante notare quanto osservato dalla giurisprudenza di legittimità circa l’art. 731 c.p.: la Cassazione ha infatti messo in evidenza la natura plurioffensiva dell’inosservanza dell’obbligo di istruzione dei minori, in quanto «lesivo non solo dell’interesse pubblico dello Stato all’ottemperanza all’obbligo scolastico, ma anche del diritto soggettivo del minore, costituzionalmente garantito (v. artt. 147 cod. civ. e 30 co. 1 Cost.) a ricevere adeguata istruzione» (Cass. pen. n. 1397/2004).
Si aggiunge poi un’ulteriore considerazione. Il primo ciclo di istruzione, totalmente obbligatorio, è composto dai cinque anni di scuola primaria e dai tre anni di scuola secondaria di primo grado: ne consegue che la reazione al mancato adempimento dell’obbligo è diversa persino all’interno dello stesso ciclo.
Una simile difformità, tuttavia, oltre a non avere alcun fondamento e a contrastare, semmai, con i principi alla base del sistema scolastico, è persino fuorviante. Quella ingiustificata difformità nel sanzionare le condotte dei genitori inadempienti, infatti, rischia di indurre a ritenere che soltanto la scuola primaria sia davvero fondamentale per i minori, con il rischio di sminuire l’importanza del restante percorso scolastico che, seppur indicato sempre come obbligatorio, risulta tuttavia privo della medesima attenzione da parte dell’ordinamento in caso di non ottemperanza dei genitori.
Per un’effettiva e piena tutela dei minori ‒ e in particolare di quelli maggiormente a rischio di abbandono scolastico e, conseguentemente, di emarginazione sociale ‒ è quindi senz’altro auspicabile un intervento del Legislatore volto ad armonizzare la normativa in materia di istruzione obbligatoria e risolvere il contrasto che si è determinato.
Non sarebbe infatti possibile risolvere la questione per via giurisprudenziale, in quanto, come osservato anche dalla Cassazione, un’eventuale estensione dell’attuale disciplina sanzionatoria dell’art. 731 c.p., sarebbe un’«inammissibile interpretazione analogica in malam partem» (cfr. Cass. pen., n. 50624/2017).