Articolo pubblicato anche sul sito del Centro Studi Livatino
Dante Alighieri rappresenta senz’altro uno dei più grandi poeti mai esistiti al mondo, come testimoniano le sue opere che a distanza di centinaia di anni dalla loro elaborazione continuano ancora a suscitare interesse e passione, toccando le corde più profonde dell’animo umano. Il motivo va forse ricercato nel fatto che l’Alighieri, con grande umanità e spirito di osservazione, ha saputo cogliere gli aspetti più rilevanti dell’esistenza umana, affrontando questioni significative, concernenti il singolo individuo e l’intera collettività.
Il tema della laicità e quello della partecipazione politica dei cristiani – posti alla base della presente riflessione ‒ non sono sfuggiti all’indagine del sommo poeta, il quale, a tal proposito, ha avuto modo di enunciare concetti di grande rilievo, che ancora oggi appaiono estremamente attuali e che, come tali, si è pensato di individuare qui come particolare prospettiva di indagine, muovendo dalla personale convinzione che la lettura delle opere dell’Alighieri – e, per le tematiche in oggetto, soprattutto della Divina Commedia e della Monarchia ‒ siano ancora oggi di grande ausilio ed attualità nell’ambito di un dibattito politico che abbia quale obiettivo quello di far luce sulle dinamiche sociali, sui diritti fondamentali, sul buon governo e sulla relazione fra temporale e spirituale, in una società globale sempre più eterogena sotto il profilo etico.
L’Alighieri, infatti, non soltanto fu colui che cantò per primo la laicità dello Stato e l’Italia unita, ma fu altresì colui che, da militante politico, puntò il dito con coraggio contro i mali della società, contro la degenerazione dei costumi e di una politica non orientata al bene comune bensì al bieco perseguimento di interessi personali. Egli, attingendo alla morale naturale prima ancora che a quella cristiana, ebbe il merito di denunciare la corruzione dilagante nella società (e soprattutto fra gli uomini politici), mostrando le conseguenze infauste di tali condotte per l’intera collettività, in una visione comunitaria – di evidente ispirazione cristiana ‒ per cui la salvezza non può essere raggiunta attraverso un percorso solitario di redenzione, necessitando piuttosto dell’impegno di tutti, nella consapevolezza della comune appartenenza a Dio quali figli.
Un’esortazione, dunque, quella che si ritrova spesso nelle opere dantesche, di uscire dall’angusta prigione dell’egoismo per riscoprire la pienezza di una vita vissuta in pace e in armonia con il prossimo, nell’interiorizzazione di quella che per i cristiani prende il nome di carità e che, per usare una categoria “laica”, è oggi più comunemente conosciuta come solidarietà.
Dalle opere dell’Alighieri, in particolare, si coglie un aspetto rilevante della laicità, ossia il suo stretto rapporto con l’impegno politico (aspetto forse troppo spesso dimenticato o ignorato), a cui tutti i cristiani sono da Dio chiamati e che, a ben vedere, discende proprio dall’essenza stessa del concetto di laicità, un concetto che nel corso dei secoli si è caricato di molti significati ed accezioni, non sempre correttamente riconducibili alle sue radici storiche. Nella visione dell’Alighieri, invece, detto concetto viene sviluppato a partire dall’originario significato del termine, che discende dall’assai conosciuto principio evangelico per cui bisogna dare a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio. Un’affermazione, questa, che sta ad indicare, da una parte, la necessaria distinzione fra la sfera temporale e quella spirituale e, dall’altra ‒ conseguentemente ‒ la limitazione dell’agire umano che, in quanto legato all’ambito temporale, non può superare certi confini: in ultima analisi, la religione non deve politicizzarsi, così come la politica non deve confessionalizzarsi.
In Dante si ritrova la giusta consapevolezza che ogni uomo è peccatore e come tale è limitato ed imperfetto: su queste basi ha preso vita anche il suo pensiero circa il rapporto fra il potere temporale ed il potere spirituale e circa l’importanza di non mostrarsi passivi – con un evidente richiamo al monito presente negli Atti degli Apostoli ‒ innanzi ai mali della società, come dimostra anche la ferma condanna degli ignavi, di cui al canto III dell’Inferno (vv. 22-69).
L’Alighieri all’età di trent’anni iniziò la sua attività politica, sempre caratterizzata dalla convinta difesa dell’autonomia comunale contro ogni tipo di ingerenza esterna. Egli ricoprì incarichi importanti, fu membro del Consiglio Speciale del Popolo, del Consiglio dei Savi per l’elezione dei Priori e del Consiglio dei Cento (il più importante organo amministrativo del Comune), fino ad essere eletto Priore, la massima carica di governo della città. Tuttavia i suoi avversari politici, i Neri, per riprendere il potere in città accusarono ingiustamente il poeta di baratteria (ossia, per usare categorie attuali, di corruzione, truffa e peculato), un’accusa grave ed infamante per la quale l’Alighieri subì due processi e fu condannato in contumacia.
Con quella condanna ebbe termine la carriera politica del poeta ed iniziò il lungo periodo di esilio che lo portò a vagare di corte in corte in cerca di aiuto e protezione, fino alla morte. Tuttavia, Dante continuò a manifestare interesse per la politica, pur in maniera differente, mettendo in evidenza, soprattutto nella Commedia, gli effetti di una gestione della cosa pubblica non orientata al perseguimento del bene comune e non interessata al mantenimento della pace fra i consociati. Dante era stato spettatore di una politica gestita da uomini avidi di potere che vedevano nei dissidi e nei contrasti cittadini un mezzo per accrescere la propria autorità. È forse proprio in questa “seconda fase” della vita – dopo aver sofferto a causa delle ingiustizie subite da un’autorità politica prepotente e non rispettosa della dignità umana ‒ che il poeta ha avuto modo di riflettere con maggior attenzione sull’importanza di alcuni precetti cristiani, portando a maturazione il suo pensiero politico e lasciando in eredità ai lettori insegnamenti ancora oggi validi.
Dante ha mostrato gli effetti disastrosi cui conduce una politica non incentrata sulla giustizia, destinata a decadere in sterile demagogia. La mente corre subito a quella «nave sanza nocchiere in gran tempesta» del canto VI del Purgatorio (v. 76), che fa tuttora riflettere, dopo sette secoli di storia, sui pericoli cui va incontro una società priva di una guida capace di governare nel rispetto della libertà e della dignità umana.
Egoismo, avidità, idolatria del potere e della ricchezza, sovvertimento dell’ordine naturale: sono questi i mali che finiscono con l’affliggere una società smarrita, che come tale diventa facile preda di illusorie promesse di libertà, di una libertà sganciata dalla responsabilità, che prospetta all’uomo il superamento dei propri limiti, ma che, in realtà, lungi dal condurlo alla piena realizzazione di sé, non può che farlo cadere in un deserto disumanizzante.
Dante aveva innanzi agli occhi la situazione di Firenze, una città che secondo le cronache dell’epoca era assai fiorente, in piena espansione ed ammirata per la sua bellezza da coloro che giungevano da ogni dove per visitarla, ma che, all’attenta analisi del poeta, è apparsa in tutta la sua fragilità, dilaniata dai contrasti interni generati dal desiderio di sopraffazione e di conquista del potere; una città disordinata sotto il profilo normativo, a causa di una continua riforma legislativa, sintomo dell’instabilità politica e al contempo dell’assenza di giustizia, presente magari nelle parole dei governanti, ma del tutto assente, in pratica, nelle loro azioni. La mera presenza delle leggi, del resto, ricordava bene l’Alighieri, non è di per sé sufficiente al governo di una città o di uno Stato, se non vi è la volontà di farle rispettare.
Operare secondo giustizia esige coerenza e sacrificio, esige la capacità di non scendere a compromessi con gli iniqui.
Laicità e partecipazione politica sono quindi due temi strettamente legati, come si ricava dall’episodio del tributo, dalla Lettera ai Romani o dalla Prima Lettera di Pietro, così come interessanti spunti si ritrovano anche nella Divina Commedia.
Il pensiero, a tal riguardo, corre subito al canto III dell’Inferno, assai noto per il sibillino riferimento a colui che fece per viltade il gran rifiuto, espressione su cui molto è stato scritto e che presenta non pochi profili di analisi, ma che in questa sede cede il passo agli altri protagonisti del canto: le anime degli ignavi, costrette, nell’applicazione di un rigoroso ed evidente contrappasso, ad inseguire un’insegna bianca priva di significato. Per queste anime, di cui nel mondo non è rimasto alcun ricordo, Dante mostra un atteggiamento molto particolare, che va oltre il rimprovero e il disappunto morale, tanto che li colloca nell’Antinferno, non senza offrire al lettore un’esplicita motivazione. Gli ignavi, infatti, essendo vissuti sanza ‘nfamia e sanza lodo, insensibili ad ogni forma di interesse politico o religioso, sono stati addirittura respinti dall’inferno, per timore che potessero diventare motivo di vanto e di compiacimento per gli altri dannati, così che, nel luogo loro assegnato dopo la morte, ‘nvidiosi son d’ogne altra sorte (Inf.,III,v.48).
Severo, dunque, il giudizio dell’Alighieri per tutti coloro che in vita si sono sottratti agli impegni e alle responsabilità naturalmente legate all’esistenza umana e al vivere sociale, disprezzando, a ben vedere, il grande dono del libero arbitrio fatto da Dio all’uomo quale più alta testimonianza del suo amore e della sua fedeltà.
Dante vede allora in una vita priva di slanci e di partecipazione, in una vita passiva incentrata sulla mera coltivazione dei propri interessi e del proprio comodo, il rifiuto ed il disprezzo non solo di quel prezioso dono – fonte di tutte le libertà ‒ ma anche della stessa natura umana: “fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza”, dirà poi Dante per bocca di Ulisse nel canto XXVI dell’Inferno (vv. 119-120), a voler insistere sul fatto che l’uomo, dotato da Dio di libertà e di ragione, è tenuto a vivere pienamente e a mettere a frutto quanto ricevuto. L’uomo, infatti, per disegno divino, è chiamato alla vita sociale e alla comunione con gli altri, quale mezzo indispensabile per lo sviluppo del singolo e della comunità, così come, sempre per volere divino, l’uomo è chiamato a raggiungere la patria celeste tramite il suo agire terreno.
Il riferimento al vessillo bianco, che gli ignavi sono condannati ad inseguire, simboleggia certamente il vuoto di una vita vissuta in maniera passiva, senza slanci, senza alcuna presa di posizione nel bene o nel male, quando invece l’uomo è stato chiamato da Dio a dare una risposta in tale senso; quel vessillo bianco, condanna per le anime di coloro che “che mai non fur vivi” (Inf. III,v. 64) e che ormai “non hanno speranza di morte” (v. 46), vuole essere al tempo stesso monito per tutti gli uomini che ancora hanno un’esistenza terrena, affinché siano spronati ad avere degli ideali, a non essere indifferenti, a non restare inerti di fronte alle ingiustizie, ad essere caldi o freddi ma senz’altro non tiepidi, per usare un’espressione dell’Apocalisse.
Ma dietro quel vessillo bianco si cela anche un simbolico riferimento alla visione politica e sociale dell’Alighieri, per cui ogni uomo ha il dovere di seguire in vita i vessilli della Croce e dell’Aquila, ossia della fede e dell’impegno politico: come già detto, tutti sono chiamati ad intervenire per la realizzazione del bene comune, per il conseguimento della felicità terrena e della beatitudine celeste e i cristiani lo devono fare con la consapevolezza che ciò risponde ad un preciso volere divino.
Come insegna anche la parabola dei talenti, il servo fannullone – che per paura di perdere il talento che aveva ricevuto lo nasconde sotto terra ‒ sarà gettato nelle tenebre perché i doni ricevuti da Dio non devono essere “sotterrati”, bensì usati per servire ed aiutare il prossimo in uno spirito di carità e fratellanza o ‒ se si preferisce un termine più “laico” ‒ di solidarietà. Tutto ciò che fa crescere la comunità e che rivela la presenza di Dio deve essere condiviso e messo a disposizione degli altri, nella consapevolezza che più si è ricevuto da Dio e tanto più si è chiamati ad impegnarsi per il bene della comunità, perché la salvezza di ciascuno, nella visione cristiana, è interesse e responsabilità di tutti.
Il cristiano, come emerge anche dalla Lettera ai Romani (13,1-7), non può isolarsi dal mondo, perché è chiamato non solo a rispettare e trasmettere – prima di tutto con la propria vita ‒ la parola di Dio, ma è anche chiamato ad impegnarsi nell’ambito civile come cittadino: isolarsi dal mondo o disinteressarsi delle questioni che riguardano la società significa non rispettare pienamente la volontà di Dio, che nel separare il suo ambito da quello di Cesare ha voluto ricordare il duplice impegno – spirituale e politico – a cui ha chiamato i suoi figli, ai quali fin dall’origine ha assegnato il compito di dominare la terra.
Anche nella Prima Lettera di Pietro (2,11-17) sono riportate alcune indicazioni importanti in tal senso. La riflessione prende le mosse proprio dal forte legame che deve essere stabilito tra i cristiani ed il mondo, posto che questi non devono vivere separati dal mondo ma neppure confondersi in esso. I cristiani, pellegrini e dispersi nella realtà mondana, sono esortati a testimoniare la fede in ogni dimensione dell’umano: nella famiglia, nella comunità religiosa, nell’ambiente di lavoro, nella società ed anche nei rapporti con l’autorità. Si allude qui ad una testimonianza di fede che implica azione e coerenza, partecipazione ed apertura, dialogo ed atteggiamento propositivo.
Una testimonianza che esige, però, anche formazione, responsabilità e competenza, soprattutto da parte di coloro che hanno un ruolo più attivo e decisionale ‒ come chi governa‒ ma anche da parte di coloro che non hanno ruoli specifici: tutti infatti sono chiamati, in base alle proprie capacità, nella realtà in cui vivono, ad agire e ad impegnarsi affinché la giustizia, la libertà e l’eguaglianza non rimangano formule astratte con cui abbellire discorsi e riempire programmi politici, ma diventino la linfa vitale della società in cui ognuno deve sentirsi parte essenziale.
Anche – e forse è il caso di dire in particolar modo ‒ di fronte ai cattivi esempi di mal governo, di prevaricazione, di imbrogli e di corruzione, il cristiano ha il dovere di non chiudersi in un rassegnato isolamento, ma di farsi sale e lievito e di respingere con tenacia la tentazione di adeguarsi a modelli che sembrano ormai radicati, affinché non appaia “normale” agli occhi di chi è più fragile il messaggio per cui, ad esempio, la distrazione di denaro pubblico per fini personali – ad ogni livello, dal semplice impiegato al dirigente o al politico di turno ‒ fa ormai parte del “sistema” e quindi non è poi così grave.
Come anche Dante ha più volte ribadito, non bisogna abituarsi alla corruzione, alle ingiustizie, ai soprusi come se fossero accessori naturali del vivere sociale: l’uomo ha il diritto di essere felice e per fare questo deve combattere contro la cupidigia, ossia contro tutti quei vizi e quei mali che affliggono la società ed ostacolano il cammino verso la felicità terrena e, cosa più importante, verso la beatitudine celeste. Una società fondata sull’egoismo e sull’individualismo non può portare buoni frutti, non può garantire un sano sviluppo di tutti e di ciascuno, ma può soltanto contribuire ad accrescere separazione ed indifferenza, ossia i germi dell’odio e dei conflitti.
In questo senso, anche Papa Francesco, rivolgendosi soprattutto ai giovani durante il viaggio apostolico a Rio de Janeiro, ha ribadito: «non scoraggiatevi mai, non perdete la fiducia, non lasciate che si spenga la speranza. La realtà può cambiare, l’uomo può cambiare. Cercate voi per primi di portare il bene, di non abituarvi al male, ma di vincerlo con il bene».
Tutti devono concorrere alla costruzione di una società più giusta ed accogliente e i cristiani, in particolare, non devono rifugiarsi nell’alibi morale della degenerazione sociale, ma devono piuttosto animare la comunità politica perché essi, come si legge nella illuminante Lettera a Diogneto, peraltro assai citata anche nei documenti del Concilio Vaticano II, «svolgono nel mondo la stessa funzione dell’anima nel corpo», dimorando nella terra ed avendo però la loro cittadinanza nel cielo.
Dante ha avvertito l’esigenza, in quanto cristiano e cittadino, di mettere in luce la corruzione e tutti gli altri mali che affliggevano la società del suo tempo e che, ancora oggi, possiamo dire presenti, magari in altro modo, nella società attuale.
Egli ha avuto il coraggio di dire a voce alta che esistono dei confini invalicabili che l’uomo non deve superare e che ogni sua azione determina una conseguenza, nel bene o nel male. La sua attualità è legata soprattutto alla trasmissione dell’universale messaggio di onestà, di giustizia e di fraternità che zampilla dalle sue opere e in particolare dalla Divina Commedia. In un mondo, quale quello attuale, con particolare riferimento al panorama europeo, dove vi è la tendenza sempre più forte alla superficialità, al consumismo, all’individualismo, dove le quotidiane relazioni umane sono sempre più spesso sostituite dalle relazioni “virtuali” – a testimonianza, non di rado, dell’incapacità di entrare veramente in relazione con l’altro ‒ è quanto mai importante, soprattutto per i più giovani, tornare a leggere pagine cariche di valori, di umanità, di esortazione a non perdersi dietro false felicità e di non rinchiudersi nella gabbia dell’egoismo, ma di coltivare il rispetto per l’altro, nel perseguimento della pace e della giustizia. Lo stesso papa Paolo VI, nell’Altissimi cantus, ha invitato tutti a leggere la Divina Commedia, la Summa del pensiero dantesco, senza precipitazione – sono queste le parole del pontefice – ma con mente penetrante e attenta riflessione, al fine di coglierne il contenuto e gli ideali, esortando poi i più dotati non solo ad avere «in mano giorno e notte» una copia dell’opera, ma anche ad approfondire «tutto quanto vi rimane d’inesplorato e d’oscuro».
Fanno molto riflettere, allora, quelle proposte che sono state formulate di vietare lo studio di Dante nelle scuole, con il pretesto che il pensiero dantesco sarebbe omofobo, antisemita e persino islamofobo. Non si vuole in questa sede esprimere pareri su affermazioni di questo tipo, preferendo lasciare ai lettori la riflessione sugli insegnamenti danteschi e sui canti che sarebbero stati ritenuti sintomatici di sentimenti ostili all’uomo. È comunque evidente che l’avversione per le opere dantesche celi qualcos’altro.
Forse le parole di Dante danno fastidio ad alcuni perché scuotono le coscienze, perché sollevano il velo dell’ipocrisia e dell’ignoranza e perché si scagliano contro i falsi messaggi che attirano gli uomini con l’ingannevole prospettiva di farli essere pienamente liberi, ma dietro ai quali è in realtà occultato l’obiettivo di instillare nella società modelli di vita egoici e talora contrari alla natura umana.
Del resto Dante subì la censura della Monarchia per aver avuto il coraggio di difendere il messaggio evangelico da pretese teocratiche e la Chiesa dalla mondanizzazione.
Di fronte ai discorsi fatti da coloro che vorrebbero eliminare lo studio di Dante dai programmi scolastici (e questo vale in generale anche per tutte le valide espressioni della cultura) non è possibile reagire dicendo “non ragioniam di lor, ma guarda e passa”, perché quelle istanze ‒ che hanno il sapore di un moderno tentativo di censura ‒ invero, vanno respinte con forza e al contempo devono sollecitare una profonda riflessione sull’omologazione di pensiero che da più parti si vorrebbe imporre.
Gli attacchi alla cultura e soprattutto alle opere di alto valore morale, come insegna la storia, celano sempre obiettivi contrari alla dignità umana. Affinché, dunque, la società non diventi “nave sanza nocchiere in gran tempesta” è necessario che vi sia un impegno comune, indipendentemente dalle convinzioni religiose, anche contro la “cultura” dell’omologazione e contro il relativismo etico.