Il testo dell’articolo è stato pubblicato anche sul sito del Centro Studi Livatino
Perde il diritto all’assegno divorzile il beneficiario che abbia instaurato una “relazione sentimentale” stabile: lo afferma la Corte di Cassazione con l’ordinanza n. 22604/2020 dello scorso 16 ottobre.
1. La Corte di legittimità ha accolto il ricorso di un uomo che aveva chiesto la revoca dell’assegno divorzile previsto a favore della ex moglie, basandosi sulla circostanza che la donna avesse instaurato ormai da diversi anni una relazione stabile con un altro uomo, connotata da “periodi più o meno lunghi di piena ed effettiva convivenza”. Durante l’istruttoria era altresì stato provato che la donna aveva assunto con il nuovo compagno anche “impegni reciproci di assistenza morale e materiale”.
Al di là del clamore mediatico della pronuncia, essa si inserisce in un consolidato orientamento giurisprudenziale, sostenuto anche da buona parte della dottrina e fondato su un’interpretazione estensiva dell’art. 5 co. 10 legge n. 898/1970.
La legge sul divorzio, all’articolo citato, stabilisce infatti che “l’obbligo di corresponsione dell’assegno cessa se il coniuge, al quale deve essere corrisposto, passa a nuove nozze”. Nel corso degli anni la Cassazione ha ritenuto che anche la convivenza di fatto sia rilevante ai fini dell’eventuale diminuzione o revoca dell’assegno di divorzio, ampliando gradualmente il peso da attribuire alla convivenza medesima: si è passati così dal prendere in considerazione la convivenza more uxorio solo nei casi in cui vi fosse la prova che dalla stessa derivasse un vantaggio economico, anche indiretto, per il beneficiario dell’assegno di divorzio[1], alla valorizzazione di tale convivenza, purché stabile e continuativa, a prescindere dal profilo economico. Si è così giunti all’orientamento per cui l’instaurazione di una stabile convivenza da parte dell’ex coniuge beneficiario determina di per sé il venir meno di ogni presupposto di riconoscibilità dell’assegno divorzile.
2. L’ordinanza, per certi versi, sembrerebbe essere andata oltre l’orientamento consolidato, abbandonando il concetto di “convivenza stabile” – inizialmente ritenuto equiparabile alle “nuove nozze” – per sostituirlo con quello di “relazione affettiva” o “relazione sentimentale”. Il condizionale è d’obbligo, in quanto il caso preso in esame è piuttosto particolare: se è vero che la Corte ha attribuito rilievo alla stabile “relazione affettiva”, è altrettanto vero che nel caso concreto erano emersi elementi tali da poter quasi assimilare quel legame sentimentale protratto per anni a una convivenza more uxorio, tanto che la Corte fa riferimento ai “periodi più o meno lunghi di piena ed effettiva convivenza” e agli “impegni reciproci di assistenza morale e materiale” scambiati dalla donna col nuovo compagno.
Non è possibile pertanto, sulla base di questa ordinanza, affermare che la Cassazione abbia voluto equiparare in linea generale, ai fini della perdita del diritto all’assegno divorzile, convivenze di fatto e relazioni affettive stabili.
3. Il caso ha però fatto discutere, se non altro perché la Cassazione ha usato una terminologia diversa rispetto a quella impiegata in altre pronunce in materia[2]. Nel dubbio di che cosa abbia effettivamente voluto intendere la Cassazione, ci si è chiesti se sia giusto far venir meno il contributo economico previsto dalla legge n. 898/1970 per motivi che esulano da quelli indicati nella legge stessa, che si riferisce esclusivamente alle “nuove nozze”. Non solo: il termine a cui sembrerebbe aver dato rilievo la Cassazione suscita diversi interrogativi in ordine all’applicazione pratica. Mentre la “convivenza” si può desumere da elementi oggettivi – vivere sotto lo stesso tetto -, la “relazione affettiva” non è invece suscettibile di obiettive individuazioni, nel senso che è estremamente difficile, in concreto, poter stabilire quando una relazione possa dirsi “affettiva”, e fra le relazioni affettive quali possano dirsi rilevanti ai fini del venir meno dell’assegno divorzile. Dalla pronuncia della Cassazione non è nemmeno chiaro quando una relazione affettiva possa dirsi anche “stabile” e da quando debba considerarsi instaurata.
In una categoria così ampia, in assenza di ulteriori specificazioni, ben potrebbero essere ricomprese le relazioni amicali – l’affetto è un sentimento che unisce pure gli amici -, con la conseguenza che la mera frequentazione stabile di un amico potrebbe determinare la revoca dell’assegno di divorzio, con gravi conseguenze sul piano personale per il beneficiario, privato di una fonte di sostentamento talora necessaria. Lo stesso potrebbe aversi nel caso in cui si inizi a frequentare una persona, e poi la relazione si esaurisca in pochi mesi.
4. È evidente allora che l’interpretazione dell’art. 5 legge n. 898/1970 non può estendersi fino a ritenere equiparabili alle “nuove nozze” situazioni non suscettibili di una valutazione obiettiva, come nel caso appunto di una “relazione affettiva”. L’assegno divorzile assolve a una funzione assistenziale, perequativa e compensativa, nel rispetto del principio costituzionale di solidarietà nei rapporti fra i consociati, e a maggior ragione nei rapporti di coloro che sono stati legati ‒ per un periodo più o meno lungo ‒ dal vincolo matrimoniale.
In ragione della sua natura, quell’assegno periodico non è volto a garantire l’autosufficienza economica al coniuge che ne fruisce, bensì a consentire a quest’ultimo, come già illustrato da altri provvedimenti della Cassazione “il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali sacrificate”[3]. La ratio della decadenza dell’assegno divorzile in caso di “nuove nozze” del beneficiario sta nel fatto che col nuovo matrimonio viene meno la funzione assistenziale dell’assegno divorzile, in quanto i doveri di solidarietà morale ed economica vengono assunti dal nuovo coniuge. Non avviene lo stesso nella “relazione affettiva” senza convivenza delle parti.
Rimane l’auspicio che nell’ordinanza del 16 ottobre la Cassazione abbia dato risalto a quella specifica relazione affettiva stabile, in quanto nella pratica assimilabile ad una convivenza more uxorio, in ragione dei reciproci impegni di assistenza materiale e morale assunti dalla beneficiaria dell’assegno col nuovo compagno.
5. L’ordinanza in esame ha dato spunto per rilanciare gli “accordi prematrimoniali”, da taluni riproposti come efficaci soluzioni per prevenire contrasti in caso di crisi matrimoniale e garantire serenità ai nubendi. Fra le ultime proposte di legge presentate in materia vi è la n. 244 del 23 marzo 2018 (prima firmataria l’on Morani), che si propone di “rafforzare e rilanciare l’istituto del matrimonio e di favorire l’accesso allo stesso con la giusta meditazione e serietà”, attraverso la previsione di accordi che i futuri sposi, prima del matrimonio, potrebbero stipulare per atto pubblico davanti al notaio o mediante convenzione di negoziazione assistita per mezzo di uno o più avvocati.
Con l’introduzione di questi accordi più che “rilanciare” l’istituto del matrimonio si finirebbe col privarlo ulteriormente di rilevanza: non è certo riducendolo a un qualsiasi contratto commerciale, con tanto di clausole e sanzioni in caso di inadempimento, che si potrà rafforzare l’istituto matrimoniale; l’obiettivo da porsi sarebbe se mai che coloro che hanno deciso di sposarsi siano coscienti delle responsabilità che assumono reciprocamente con lo scambio del consenso matrimoniale, senza riserve.
Non ci si può sposare pensando che tanto “se dovesse andare male, c’è la separazione”, così come non ci si può sposare pensando di stipulare prima (“perché non si sa mai”) una sorta di assicurazione in caso di fallimento, quali sono gli accordi prematrimoniali: tutto ciò è profondamente contrario alla natura e alle finalità del matrimonio. A livello sociale la previsione normativa di questi accordi potrebbe indurre a ritenere la separazione coniugale quale evento certo e inevitabile di ogni matrimonio, tanto da doverla disciplinare prima ancora di sposarsi. Con quale stato d’animo ci si può sposare avendo già pianificato la propria separazione? Come si può pensare di costruire qualcosa di bello su fondamenta corrose dalla paura e dal sospetto? Quei genitori che, per primi, non hanno creduto fino in fondo alla loro unione, come potranno trasmettere ai figli una sana fiducia nelle relazioni umane?
I patti prematrimoniali, lungi dal favorire la “meditazione” e la “serietà”, alimentano la cultura del sospetto e la convinzione che dell’altro è meglio non fidarsi. Ma se non ci si fida della persona con la quale si è deciso di vivere insieme e magari avere anche dei figli, di chi ci si potrà fidare? E se non si ha fiducia nel prossimo – a cominciare da quello con cui si abita – su quali valori umani si fonderanno le relazioni sociali?
Gli accordi prematrimoniali si porrebbero poi in evidente contraddizione con i matrimoni concordatari, per i quali non si può infatti parlare neppure di scioglimento del matrimonio ma di cessazione degli effetti civili, in ragione della natura sacramentale dell’atto: in questo ambito quegli accordi finirebbero con il determinare incertezza giuridica, dovuta alla nullità del matrimonio secondo quanto previsto dalla disciplina che li riguarda, e conseguenti contenziosi in ambito civile ed ecclesiastico.
La formazione di una famiglia va incoraggiata e sostenuta a livello sociale, non già indebolita da interventi normativi che instillino dubbi sulla tenuta delle relazioni coniugali.
Clicca qui per il testo in Pdf dell’ordinanza Cass. civ. n. 22604-2020
[1] Cfr. Cass. civ. n. 12557 del 2004.
[2] Cfr. Cass. civ. n. 406 del 2019; Cass. civ. n. 16982 del 2018, Cass. civ. n. 32871 del 2018, Cass. civ. n. 2466 del 2016; Cass. civ. n. 6855 del 2015.
[3] Cfr. Cass. civ. n. 5603 del 2020; Cass. Sez. Un. n. 18287 del 2018, Cass. civ. n. 1882 del 2019.