La Corte di Cassazione, in una recente sentenza (cfr. sent. Cass. Sez. Lav. 17/06/2022 n. 19623) torna a pronunciarsi sulla responsabilità del datore di lavoro per non aver attuato le misure necessarie per contenere i rischi di intossicazione ad un lavoratore esposto all’amianto.
Il caso
Gli eredi di un lavoratore che aveva svolto mansioni di saldatore e che era stato esposto per tutta la durata del rapporto di lavoro ad agenti patogeni agivano in giudizio per ottenere il risarcimento del danno biologico, morale ed esistenziale patito dal congiunto a causa dell’esposizione all’amianto.
Il giudice di prime cure condannava il datore di lavoro al risarcimento dei danni non patrimoniali mentre quello di secondo grado rigettava l’appello proposto dagli eredi negando la risarcibilità del danno morale ed esistenziale poiché nella fattispecie vi era una concausa della patologia cancerogena, ossia la circostanza che il lavoratore per circa tre anni avesse fumato 15-20 sigarette al giorno.
Gli eredi del lavoratore proponevano quindi ricorso per Cassazione avverso la sentenza della Corte di Appello di Genova deducendo in particolare l’errata determinazione del danno biologico nonché la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2,3, 32 della Costituzione e degli artt. 2043, 2059, 2087 e 2727 del Codice Civile e chiedevano altresì il risarcimento del danno morale (nello specifico per la paura di ammalarsi e di morire) sostenendo che lo stesso fosse stato provato attraverso delle presunzioni.
I principi di diritto affermati dalla Cassazione
La Corte di Cassazione, in riferimento alla questione delle due concause nella determinazione della malattia al lavoratore (esposizione all’amianto e tabagismo), ha riconosciuto la responsabilità del datore di lavoro affermando che “la ripartizione tra i due fattori di rischio non riguarda la responsabilità nella causazione del danno, ma l’entità del risarcimento”.
Inoltre nella sentenza viene richiamata una pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione (n. 2611/2017) in cui è affermato che “la prova del pregiudizio subito può essere fornita anche mediante presunzioni, sulla base di nozioni di comune esperienza, perché la dimostrazione del pregiudizio può essere ricavata anche dall’esame della natura e dall’entità delle immissioni a cui è sottoposto il danneggiato”.
Va ricordato che le presunzioni semplici sono quei mezzi di prova la cui valutazione, ai sensi e per gli effetti dell’art. 2729 del Codice Civile, è lasciata alla prudenza del giudice il quale, per poterle ammettere come prova, deve verificare che esse siano gravi, precise e concordanti.
Ebbene nella fattispecie in oggetto il Giudice di secondo grado aveva errato nel non considerare provata la sofferenza morale patita dal lavoratore: tale prova era stata infatti fornita, seppure in modo indiretto, attraverso delle presunzioni che erano state allegate sin dall’atto introduttivo e richiamate nel secondo motivo del ricorso per Cassazione.
Pertanto la Cassazione decideva di accogliere il secondo motivo di ricorso e di cassare la sentenza impugnata con rinvio.
La sentenza sopra richiamata è interessante sotto un duplice profilo. In primo luogo si inserisce all’interno dell’indirizzo della giurisprudenza di legittimità in materia di lavoro che riconosce la risarcibilità del danno morale subito dal dipendente a causa del patema d’animo e del turbamento per il sospetto di malattia futura (cfr. Cass. Sez. Lav. 13/10/2017 n. 24217).
Inoltre la pronuncia è anche estremamente attuale in quanto, nonostante siano trascorsi 30 anni dall’entrata in vigore della legge che ha dichiarato illegale l’utilizzo dell’amianto (L. n. 257/1992), sono ancora molto numerose le pronunce di merito e di legittimità aventi ad oggetto il risarcimento dei danni per l’esposizione dei lavoratori ad amianto.