La Corte di Cassazione, in una recente sentenza (cfr. Cass. 3° Sezione Civile 23 dicembre 2020 n. 29469), si è nuovamente pronunciata sulla questione della legittimità del rifiuto ad una emotrasfusione manifestato da una Testimone di Geova.
Il caso
Una madre appartenente ai Testimoni di Geova richiedeva il risarcimento dei danni e la restituzione di quanto corrisposto per la prestazione professionale riguardo a delle trasfusioni di sangue (eseguite nonostante la sua contrarietà) a seguito di una emorragia conseguente a parto con taglio cesareo. Dopo il rigetto della domanda da parte del Tribunale, la sentenza veniva impugnata dinanzi alla Corte di Appello di Milano, appello anch’esso poi respinto. L’interessata ricorreva in Cassazione articolando il ricorso con quattro motivi.
La ricorrente in particolare deduceva che il giudice di seconde cure aveva fornito una motivazione illegittima, in quanto aveva erroneamente inquadrato la fattispecie in termini di “rifiuto preventivo” al trattamento sanitario – il quale riguarda invece pazienti incapaci o incoscienti – mentre lei, al momento dell’ingresso in ospedale, aveva fornito il proprio consenso soltanto alla laparotomia esplorativa, ma non alla trasfusione di sangue, che è un trattamento distinto e in quanto richiede uno specifico consenso scritto ai sensi del D.M. Salute del 3 marzo 2005.
Inoltre la medesima deduceva di essere rimasta cosciente dopo l’intervento di taglio cesareo e di aver più volte manifestato espressamente il proprio dissenso alla trasfusione di sangue “in qualsiasi circostanza”, ponendo in essere un atto di obiezione di coscienza a motivo della sua fede, rifiuto che però era stato ignorato dal medico.
I principi affermati dalla Cassazione
La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso, affermando il seguente principio di diritto:
“il Testimone di Geova, che fa valere il diritto di autodeterminazione in materia di trattamento sanitario a tutela della libertà di professare la propria fede religiosa, ha il diritto di rifiutare l’emotrasfusione pur avendo prestato il consenso al diverso trattamento che abbia successivamente richiesto la trasfusione, anche con dichiarazione formulata prima del trattamento medesimo, purché dalla stessa emerga in modo inequivoco la volontà di impedire la trasfusione anche in ipotesi di pericolo di vita” (cfr. pp.14-15 sentenza in commento).
Nella pronuncia viene ribadito il principio che la manifestazione del consenso del paziente alla prestazione sanitaria costituisce esercizio del diritto fondamentale all’autodeterminazione in relazione al trattamento medico propostogli, con fondamento costituzionale negli artt. 2, 13 e 32 comma 2 Cost.
In altri termini, il paziente può sempre rifiutare le cure mediche che gli vengono somministrate, anche quando il rifiuto possa causare la morte. Riguardo ai requisiti del dissenso espresso dal paziente prima del trattamento sanitario, la Suprema Corte afferma che esso, per essere valido ed esonerare il medico dal potere-dovere di intervenire, deve essere espresso, inequivoco ed attuale. Ciò comporta che il dissenso ad un determinato intervento deve essere manifestato “ex post”, ossia dopo che il paziente sia stato pienamente informato sulla gravità della propria situazione e sui rischi derivanti dal rifiuto delle cure.
Inoltre la Cassazione si sofferma sulla libertà religiosa garantita dall’art. 19 Cost., riaffermandone la natura di diritto inviolabile che va tutelato “al massimo grado” in quanto il principio di laicità, in conformità con la giurisprudenza costituzionale in materia, non deve intendersi “come indifferenza dello Stato di fronte all’esperienza religiosa, bensì come tutela del pluralismo a sostegno della massima espansione della libertà di tutti”.
Per quanto concerne la posizione del medico, la Cassazione, sulla base di quanto previsto dalla L. 22 dicembre 2017, n. 219 – seppure non applicabile alla fattispecie ratione temporis – ritiene che essa “non è esente da garanzie” e che a fronte della determinazione del paziente di esigere dal sanitario un trattamento contrario alla deontologia professionale ed alle buone pratiche clinico-assistenziali, “il medico non ha obblighi professionali”.