In una recente pronuncia il Tribunale di Venezia (cfr. sentenza 25/02/2021 n. 139) si è occupato della vexata quaestio del licenziamento per l’utilizzo improprio da parte del lavoratore dei permessi riconosciuto ai sensi dell’art. 33 L. n.104/1992.
Il caso
Con ricorso ex art.1 comma 51 L. n. 92/2012 (c.d. rito Fornero), un lavoratore ha proposto opposizione avverso l’ordinanza con cui il Giudice della fase sommaria aveva rigettato la domanda volta ad ottenere, accertata l’illegittimità del licenziamento disciplinare, la condanna del datore di lavoro alla reintegra nel posto di lavoro “. Parte opponente deduceva che, nei giorni di fruizione dei permessi ex lege 104/92, aveva effettuato anche attività assistenziale diretta a favore del padre e che nel ricorso il recesso era stato esplicitamente configurato come ritorsivo, “quale esplicazione della categoria del licenziamento discriminatorio”. Parte opponente lamentava inoltre la omessa considerazione dei comportamenti vessatori posti in essere dall’azienda, la sproporzionalità del licenziamento in assenza di ulteriori procedimenti disciplinari. Il lavoratore ha concluso chiedendo in via principale accertarsi l’illegittimità del licenziamento “perché privo di giusta causa e perché ritorsivo/discriminatorio e comunque nullo per motivo illecito determinante” e condannarsi la Società alla reintegra nel posto di lavoro e al pagamento dell’indennità risarcitoria, secondo le modalità previste dall’art.18 comma 4 L. n. 300/70.
I principi affermati dal Tribunale
La sentenza è interessante in quanto il Tribunale opera la distinzione tra il licenziamento discriminatorio e quello ritorsivo che sono due fattispecie distinte ma che presentano delle analogie in quanto entrambe comportano come sanzione prevista dall’ordinamento la nullità del recesso con conseguente reintegra del lavoratore.
In sintesi il licenziamento discriminatorio consiste nel recesso intimato dal datore di lavoro e determinato da ragioni di credo politico o di fede religiosa, dall’apparenza del lavoratore ad un sindacato, da ragioni concernenti una caratteristica personale che lo contraddistingue come ad esempio il sesso, la nazionalità o la lingua. Invece il licenziamento per ritorsione o per rappresaglia consiste in una reazione arbitraria del datore di lavoro al legittimo esercizio di un diritto da parte del lavoratore o comunque ad un suo comportamento legittimo.
A riguardo il Tribunale di Venezia nella sentenza citata chiarisce che “ (..) nel licenziamento discriminatorio la nullità discende direttamente dalla violazione di specifiche norme di diritto interno, quali l’art. 4 della L. n. 604 del 1966, l’art. 15 St.Lav. e l’art. 3 della L. n. 108 del 1990, nonché di diritto europeo, quali quelle contenute nella direttiva n. 76/207/CEE sulle discriminazioni di genere, per cui non è necessaria la sussistenza di un motivo illecito determinante ex art. 1345 c.c., né la natura discriminatoria può essere esclusa dalla concorrenza di un’altra finalità, pur legittima, quale il motivo economico” . Invece nell’ipotesi di licenziamento ritorsivo o per rappresaglia, spetta al lavoratore indicare e provare i profili specifici da cui desumere l’intento ritorsivo quale motivo unico e determinante del recesso, “(..) atteso che in tal caso la doglianza ha per oggetto il fatto impeditivo del diritto del datore di lavoro di avvalersi di una giusta causa, o di un giustificato motivo, pur formalmente apparente”.
Il licenziamento discriminatorio e quello ritorsivo vanno tenuti distinti con particolare riferimento alla prova. Infatti mentre nel primo caso l’onere della prova gravante sul lavoratore è attenuato rispetto a quello ordinario in quanto è possibile anche ricorrere ad elementi statistici per provare di aver subito una discriminazione (cfr. Cass.Sez. lav.15/06/2020 n.11530), nel licenziamento per ritorsione il lavoratore deve provare i profili specifici da cui desumere l’intento ritorsivo quale motivo unico e determinante del recesso del datore di lavoro, circostanza che comporta quindi l’assenza di altre ragioni lecite determinanti.
Infine un ulteriore aspetto da sottolineare nella motivazione è la parte in cui il Giudice, nel rigettare l’opposizione del lavoratore, dà conto del consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui i permessi ex lege 104/92 possono essere fruiti anche per far fronte ad esigenze diverse rispetto all’assistenza diretta, come ad esempio per la prenotazione di visite mediche o l’acquisto di vestiario, (cfr. Cass. Sez. lav. 22/01/2020 n.1394). Tuttavia nel caso in questione i permessi venivano indebitamente utilizzati per soddisfare fini personali del lavoratore e non per soddisfare altre esigenze dell’assistito, con conseguente rigetto dell’opposizione e conferma della legittimità del licenziamento disciplinare.